Boskov avrebbe 90 anni: la Samp, Totti, Perdomo, Gullit cervo e «rigore quando arbitro fischia». Storia di un mito in 10 frasi
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L’indimenticato ex giocatore e tecnico serbo scomparso nel 2014 era nato il 16 maggio 1931. È una leggenda non solo per i trionfi in campo, fra cui il mitico scudetto blucerchiato nel 1991, ma anche per l’ironia con cui ha sempre affrontato la vita.
Ironico e vincente: un’icona indimenticabile
Icona di una serie A indimenticabile, punto di riferimento – a cavallo fra gli anni 80 e ‘90 – per ogni fuoriclasse internazionale. Questo era Vujadin Boskov da Begec, calciatore e (soprattutto) allenatore morto nel 2014 che il 16 maggio avrebbe compiuto 90 anni. Serbo-jugoslavo dal motto fendente, istrionico e furbissimo, ambizioso e disposto a rimettersi sempre in gioco nel segno di quel calcio che lo rese ricco (anche di successi) e personaggio mediatico al contempo. Ironico. Di quelli che con mezza frase, riassumevano una partita, un giocatore, un modello di pensiero. Profeta di una Sampdoria sul tetto d’Europa e, prima e dopo, di altre personali parabole professionali. Dal Real Madrid all’Ascoli; dal Napoli post Maradona alla Roma post Viola. Fedele al proprio istinto di nomade di lusso; innamorato dell’Italia come l’attore più navigato del palcoscenico più prestigioso. Quando il calcio è anche commedia dell’arte, di vincere e convincere. Tanti attimi da riassumere; uno per ogni sua frase spiazzante...
Un calciatore «danubiano»
Nato nella Vojvodina (nord della Serbia, allora Jugoslavia), già a 15 anni si mise in viaggio per Novi Sad. Fosforo e piedi buoni, mediano di rottura, ma anche regista e organizzatore di gioco, s’ispirava alla grande scuola danubiano-ungherese. Restò al Vojovodina Novi Sad per dieci stagioni senza vincere nulla, ma raccogliendo presenze nella fortissima nazionale di Tito: alla fine saranno 57 dal 1951 al 1957 con l’argento all’Olimpiade di Helsinki 52. A 30 anni sbarcò in Italia, alla Sampdoria, ma con Monzeglio allenatore non s’impose a causa di vecchi e nuovi infortuni (13 gare, 1 gol). Chiuse allo Youg Fellows Zurigo e cominciò subito ad allenare. Solo all’inizio senza grande convinzione: «Gli allenatori sono come le gonne: un anno vanno di moda le mini, l’anno dopo le metti nell’armadio» riassumerà quell’incertezza solo a «successo acquisito».
Un grande allenatore
Sedici tappe nella sua carriera da allenatore; 13 club diversi (in Svizzera, Jugoslavia, Olanda, Italia, Spagna) e due volte la Nazionale del suo paese: dal 1971 al 1973 e nel 1999-2000, ultima tappa di una carriera straordinaria che lo ha visto guidare – fra le altre – Feyenoord, Real Madrid, Sampdoria (l’unico club in due riprese; dall’86 al 92 e nel 97-98), Roma e Napoli. Ricchissima la bacheca: un campionato jugoslavo; una coppa dei Paesi Bassi (col piccolo Den Haag); una Liga e due coppe di Spagna col Real Madrid; uno scudetto, una coppa delle Coppe e una Supercoppa italiana (con la Samp), un campionato di serie B (ad Ascoli). In totale 1019 panchine di club professionistici in tutte le competizioni, 439 vittorie, 306 pareggi e 274 sconfitte. Esclusa la lunga militanza sulla panca del Vojvodina (dal 1964 al 1971; club non professionistico). Frase-cult? «Nel calcio c’è una legge contro gli allenatori: giocatori vincono, allenatori perdono».
I successi fuori dall’Italia
L’inizio di carriera da tecnico fu sfolgorante: di nuovo al Vojovidina nel 1964 (e per sette anni, gestendo la squadra senza patentino) vinse il primo campionato (65-66) arrivando ai quarti di coppa dei Campioni l’anno successivo. Dal 1971 al 1973 guidò una nazionale jugoslava talmente forte che, alle qualificazioni dell’Europeo 1972, vinse il proprio girone davanti all’Olanda di Cruijff, Krol e Rinus Michels. Quella del «Calcio totale». Poi, in rotta con Tito e il suo regime, spiccò il volo verso l’Europa «oltre cortina». Proprio in Olanda vinse la Coppa nazionale col minuscolo Den Haag, poi passò al Feyenoord. Era solo l’inizio: in Spagna si fece conoscere al Real Saragozza. Talmente bene che, subito, lo volle il Real Madrid dove vinse molto e sfiorò una coppa dei Campioni. Eliminata l’Inter di Beccalossi e Bersellini in semifinale (80-81), si fece beffare dal Liverpool 1-0 nella finale di Parigi. Era il Real di Juanito, Santillana e della meteora Laurie Cunningham. Ottimi giocatori, non fuoriclasse assoluti. «Grandi squadre fanno grandi giocatori. Grandi giocatori fanno spettacolo e migliore calcio». Passò al Gijon per due annate anonime.
L’arrivo in Italia: prima tappa Ascoli
Ascoli autunno 1984: la squadra di Costantino Rozzi stenta in A, il grande presidente del «Picchio» ci prova e propone al blasonato Vuja la panchina della sua squadra di provincia. Boskov – umile, coraggioso e resiliente – si butta. E gli va male: scende in B con sole 4 vittorie in 23 gare (12 pareggi). L’anno dopo (in coppia con Aldo Sensibile) però torna in A di filato. È il biglietto per una grande e infatti va alla Sampdoria dell’ambizioso Mantovani. Inizia una storia meravigliosa. «Se mettessi in fila tutte le panchine che ho occupato, potrei camminare chilometri senza toccare terra». E infatti in blucerchiato volerà altissimo...
Sei anni d’oro con la Samp
Lo citi a un tifoso doriano e non potranno non luccicargli gli occhi. Con quelli di Vialli e Mancini è il terzo nome legato a una vera epopea calcistica. Alla Samp Boskov resterà sei annate (dal 1986 al 1992), vincendo quasi tutto — uno scudetto (91), due Coppe Italia, una Coppa delle coppe (90) — e arrivando alla finale della Champions (1992). Pagliuca in porta, Vierchwood, Pari, Salsano, Dossena, Cerezo e tanti altri grandi giocatori fanno da base per le punte di diamante: Vialli e Mancini. Il Doria gioca bene e vince. In Italia e in Europa. L’apogeo nel maggio 92 al vecchio Wembley per la finale di Champions con il Barcellona: la Samp domina e sfiora il gol due, tre volte. Poi risolve Koeman con una sassata da 20 metri. È la prima volta del Barça; l’ultima finale europea per la Samp. «Dieta? Non ho bisogno di fare dieta. Ogni volta che entro a Marassi perdo tre chili». Amore vero.
Il derby, Perdomo e il cane
I Derby col Genoa (e con Perdomo) Anni doriani, anni di derby. Affascinanti, combattuti, ironici e crudeli. Uno dei primi, 1989: nel Genoa «uruguagio» giocano il discreto puntero Ruben Paz, il forte attaccante Aguilera e il macchinoso libero Perdomo. Tre nazionali. Vuja scivola con la lingua: «Se sciolgo mio cane in giardino lui gioca meglio di Perdomo». E la paga cara: 27 milioni di lire (14mila euro al cambio attuale). 10 di multa dal Doria, 17 per la denuncia.
Gullit «cervo che esce di foresta»
Tantissimi i campioni gestiti, affrontati e giudicati. Su Maradona: «Nessun paragone. Era il cuore di Napoli». Su Gullit: «Lui sembrava cervo che esce da foresta», dice dopo aver perso una sfida contro il Milan olandese di Sacchi. Quindi sui giocatori meno efficaci: «Benny Carbone (mezzapunta del suo Napoli, ndr) con sue finte disorienta avversari ma pure compagni». E ancora sul suo storico cursore di fascia, di nome Attilio: «Lombardo è come Pendolino che esce dalla galleria». D’altra parte, secondo Boskov: «Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri». Difficile trovarne spesso. Finita la lunga parentesi doriana, per lui un’anonima stagione alla Roma (92-93). Un decimo posto mediocre, dove però...
L’esordio di Totti
28 marzo 1993: la «Rometta» del presidente Ciarrapico (che poco dopo sarà arrestato) è a Brescia da decima in classifica. Al 90’ – sul 2-0 per i giallorossi - Vuja guarda la sua panca con fare burbero: ««Scaldati, dai! Che entri». Un sedicenne si guarda intorno e non capisce subito che il serbo sta parlando con lui. Corricchia ai margini del campo e poi entra (anche nella storia del calcio italiano). Si chiama Francesco Totti. Prende il posto di Rizzitelli; e prenota quello di ottavo re di Roma.
«Rigore è quando arbitro fischia»
A beneficio dei giornalisti Restano storiche alcune sue frasi ad effetto. Coi quali giornalisti e tifosi vanno a nozze da sempre. «Rigore è quando arbitro fischia» è quella più cavalcata anche oggi (in tempi di Var e polemiche inerenti); ma pure «Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0». Perifrasi iperboliche che stemperano, calmano e ridimensionano un mondo del calcio troppo elettrico. Ieri come oggi. A un giornalista che gli parlava di rischio serie B per il suo Napoli: «Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello». D’altra parte «Pallone entra quando Dio vuole». Sì, a Napoli fra il 1994 e il 1996 (dopo un anno sabbatico) un settimo posto e un dodicesimo. Il massimo che si può fare con un club in declino.
La scomparsa nel 2014
Dopo un mediocre Napoli, una toccata in Svizzera (al Servette), quindi un’altra tappa alla Sampdoria in crisi (portata comunque a un buon 10° posto nel 1997-98) e l’ultimo incarico al Perugia (14° nel 98-99). Poi il ritiro nella sua Vojvodina, dove ha preso congedo da tutto e tutti a fine aprile del 2014. Il giusto luogo dove riposare per chi ha viaggiato e vinto così tanto in giro per il mondo. «Partita finisce quando arbitro fischia». Il posto era quello giusto. Appunto.
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