Bella come cervo che esce di foresta
La top 11 di Vujadin Boskov. Bella come cervo che esce di foresta
Calciatore, allenatore, filosofo, umorista, maestro di vita, di conoscenza e di lealtà. Scegliete voi quale sia la rappresentazione che meglio ritrae il poliedrico Vujadin Boskov, nato esattamente ottantanove anni fa in una sperduta località di circa tremila abitanti nei pressi di Novi Sad. Zio Vuja, come veniva chiamato affettuosamente dalle persone a lui più vicine, è partito da Begec ed è diventato cittadino del mondo, ha distribuito sapienza calcistica e aforismi, ha allenato e vinto, ha venduto sogni che sono diventati trofei e, la cosa che forse più lo gratificava, si è guadagnato la stima degli appassionati di calcio e dei tifosi, anche di quelli delle squadre rivali, grazie alla sua ironia sdrammatizzante, accentuata ancor di più dal quel suo inconfondibile accento balcanico.
Boskov è stato uno di quegli allenatori che non ti insegnano solo a tirare un calcio ad un pallone, ma ti impartiscono lezioni sul senso della vita anche solamente attraverso una battuta, all’apparenza banale ma che banale non è. «Rigore è quando arbitro fischia», tanto per ricordare la sua massima più celebre, ovvero: «Che ti lamenti a fare? È andata così, guarda avanti».
Nel giorno del suo genetliaco abbiamo voluto rendere omaggio a questo vero e proprio saggio del nostro amato Pallone attraverso una ideale Top 11 dei giocatori allenati dal Professore nelle sue diverse esperienze italiane. Dalla Sampdoria vincente in campo nazionale e internazionale (1986-92) e il cui ricordo è indissolubilmente legato al nome del tecnico serbo, fino al Perugia salvato in corsa nel 1999, passando per l’Ascoli di Rozzi (1984-86) e due grandi in cerca di rilancio come Roma (1992-93), Napoli (1994-96). Senza dimenticare, infine, il breve ritorno sulla panchina blucerchiata (1997-98), per risollevare le sorti della “sua” Samp dopo la fallimentare gestione del tecnico argentino Menotti durata appena otto giornate.
Proprio come un vate, votato alla filosofia della semplicità del gioco, in qualunque piazza Boskov abbia predicato il suo pensiero, ha fatto proseliti. Non deve essere un caso se diversi elementi di questa squadra ideale, rigorosamente schierata con il 4-4-2 caro a lui caro, sono diventati allenatori di successo una volta appesi gli scarpini al chiodo. Tra gli esclusi eccellenti (per non aver giocato in Italia) vi è un tale che per sua stessa ammissione deve tutto al Professore di Novi Sad. Di nome fa Vicente, di cognome Del Bosque e fu centrocampista nel Real Madrid di Boskov a cavallo tra gli anni ’70 e ’80: da entrenador ha vinto letteralmente tutto quello che si può vincere.
Prima di lasciarvi a questa irrealizzabile quanto meravigliosa squadra, non priva di qualche licenza che ci perdonerete, e prima di farvi sorridere con i precetti del pensiero boskoviano che la accompagnano, vogliamo ricordare Vujadin Boskov con la sua massima più bella. Specialmente se detta da un uomo che ha amato la sua compagna di una vita, Jelena, nel modo in cui ogni donna vorrebbe essere amata: «Se uomo ama donna più di birra gelata davanti a tv con finale, forse vero amore, ma non vero uomo».
Gianluca PAGLIUCA
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«Ma chi ha sbagliato Pagliuca?»
Per onorare il numero “uno” di questo undici tutto speciale non potevamo che rispolverare questo amletico dubbio di Boskov, risalente ad un Bari-Sampdoria della stagione 1991-92 e che si trasformò in un tormentone della Gialappa’s Band, sempre pronta a riproporlo nei rari errori del portierone della nazionale e della Samp dello Scudetto. Poco prima del fischio della gara, Boskov, intervistato a bordo campo, è profetico: «Favoriti esistono solo quando si vince». Ed infatti è David Platt, futuro doriano, a firmare il pareggio per i galletti approfittando di un’uscita a vuoto del portiere avversario. Eh sì… ha sbagliato proprio Pagliuca.
Fabio CANNAVARO
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«Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello»
Così replicò il maestro di Novi Sad ad un giornalista che paventava un coinvolgimento dei partenopei nella lotta per non retrocedere. È pur vero che il Napoli di Boskov non è ricordato tra le grandi del nostro calcio. Ma nel biennio azzurro, Boskov ebbe modo di dare la sua impronta alla formazione tecnico-tattica di un giovane difensore, schierato qui in via eccezionale sulla fascia destra, che si stava affermando nel panorama calcistico italiano e che qualche anno dopo avremmo tutti ricordato con una Coppa del Mondo tra le mani.
Pietro VIERCHOWOD
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«Se non gioca Castellini io mettere Hugo. Altro non hai»
Ecco la sintesi di quello che passò per la testa di Zio Vuja quando al ritorno sulla panchina della Sampdoria nell’autunno del 1997 ebbe a ritrovarsi una difesa lontanissima parente di quella lasciata solo qualche anno prima. Una linea difensiva che vedeva in Vierchowod, difensore arcigno e veloce a cui una volta disse: «Tu prendi Gullit e te lo metti nel taschino», la sua colonna portante. Con buona pace del povero centrale portoghese ex Sporting Braga che, pur non sfigurando nella nostra Serie A dal 1997 al 2000, in comune con il Russo aveva solo il ruolo in campo.
Sinisa MIHAJLOVIC
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«Ci sono allenatori che pretendono di far mangiare ai loro giocatori prosciutto di San Daniele e formaggio Bel Paese. Poveri noi e poveri loro»
Uno dei “vice” in campo di Vujadin Boskov, che ha avuto il piacere di allenarlo sia nelle squadre di club che in nazionale seguendone l’evoluzione tattica, da esterno di sinistra nel centrocampo giallorosso a difensore centrale nella Sampdoria e nella nazionale jugoslava. Boskov-Mihajlovic: un rapporto di osmosi calcistica, con i due sempre pronti al confronto e il cui risultato finale è quello che abbiamo la possibilità di vedere oggi. Sinisa è un allenatore tutto d’un pezzo, che fa del rigore e del metodo le prime regole, proprio come il suo maestro: «Senza disciplina vita è dura». E non stentiamo a credere che Sinisa, come Boskov, non farà mangiare ai suoi giocatori solo prosciutto e formaggio.
Srecko KATANEC
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«Partita finisce quando arbitro fischia»
Lo sloveno era il jolly dello scacchiere doriano di Boskov, capace di assicurare la garanzia della prestazione sia da mediano, suo ruolo naturale, che da terzino sinistro, posizione in cui disputò anche la sfortunata finale di Wembley persa con il Barcellona nel 1992. Katanec era letteralmente ammaliato dalla chimica relazionale di Boskov a tal punto che a Genova decise di abitare nel suo stesso palazzo. Otto anni dopo quella maledetta partita, i due si ritrovano da avversari, come commissari tecnici, ad Euro 2000. Boskov con la sua Jugoslavia, Katanec con la sua Slovenia. A ventitre minuti dalla fine i biancoverdi di Zahovic sono sopra di tre gol, oltre a godere della superiorità numerica in campo per l’espulsione di Mihajlovic. L’allievo sembra superare il maestro. Poi leggi il tabellino finale, che recita 3-3 e ti chiedi come sia stato possibile. È la magia del calcio o è l’arcinota follia sportiva dei giocatori slavi, capaci di tutto e del contrario di tutto. Noi preferiamo credere ad una terza versione, più romantica: Srecko non se l’è sentita di dare un dispiacere al suo vecchio maestro.
Attilio LOMBARDO
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«Lombardo è come Pendolino che esce da galleria»
La metafora ferroviaria di Boskov ritrae perfettamente l’esplosività e la costanza in progressione di Popeye, capace di sbucare a tutta velocità sull’out destro senza che il malcapitato difensore potesse abbozzare un intervento difensivo degno di questo nome. Seppure l’Attilio nazionale sia riuscito ad essere protagonista anche con le maglie di Juventus e Crystal Palace, le sue sgroppate da quattrocentista sull’out destro di Marassi e i suoi cross pennellati sulla testa di Vialli sono ancora negli occhi dei tifosi doriani.
Antonio Carlos CEREZO
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«Squadra che vince scudetto è quella che ha fatto più punti»
Il mediano brasiliano, considerato in assoluto uno dei migliori centrocampisti degli anni ’80, non poteva mancare sulla lista della spesa di Boskov, appena approdato sulla panchina della Sampdoria. Il Professore si era convito che il romanista Cerezo fosse l’uomo giusto intorno a cui costruire una squadra vincente. Il gol del brasiliano a Lecce, il 19 maggio del 1991, apre le porte al primo ed unico Scudetto della storia blucerchiata e costituisce la realizzazione di quell’idea nata cinque anni prima nella mente di Boskov. Perché tutto sia perfetto, il gol arriva al culmine di un’azione che rappresenta l’essenza della filosofica calcistica del serbo, improntata alla semplicità e alla fluidità della manovra. Fuga di Lombardo sulla destra che crossa al centro. Vialli controlla il pallone dentro l’area giallorossa e poi lo appoggia per Cerezo che sbuca dalle retrovie e di esterno destro trova la traiettoria tricolore. Boskov era più di un allenatore, era un profeta.
Hidetoshi NAKATA
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«Città come Perugia o Genova che non vincono diventano più povere»
Hidetoshi Nakata, ovvero il giocatore di questa utopistica formazione calcisticamente più vicino al modo di pensare il calcio di Boskov. L’estetica del bel gioco non nasce necessariamente dal numero ad effetto, dal ricamo, ma dalla sintesi tra l’idea di calcio che si vuole esprimere e il modo più immediato per farlo. Le strade di Hide da Yamanashi e Vuja da Begec, si sono incrociate nel 1999. Seppur nati a migliaia di chilometri di distanza, cresciuti in periodi temporali e contesti culturali agli antipodi, i due erano più simili di quanto si potesse immaginare. Entrambi innamorati del mondo in tutti suoi aspetti, facevano il loro mestiere per il solo piacere di farlo. Boskov accetta di prendere le redini del Perugia, in cui milita il nipponico, a febbraio, dopo che il ciclonico Gaucci ha praticamente costretto Castagner alle dimissioni. «Sono trent’anni che alleno, non posso farne a meno». Lo stesso ideale, in chiave antitetica, spingerà nel 2006 Nakata al ritiro dal calcio a soli ventinove anni. «Non mi diverto più» dirà dopo il Mondiale e dopo una poco significativa esperienza al Bolton Wanderers, dove il fiore del suo talento è appassito insieme al suo entusiasmo per il calcio. Non prima, però, di aver salvato dalla B il grifone insieme a Boskov.
Francesco TOTTI
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«Se fai tre gol a partita, è ora di cambiare categoria»
È il maestro serbo a far capire a un adolescente Francesco Totti che la divisa della Roma Primavera inizia ad andare stretta al suo talento che necessita di palcoscenici ben più importanti delle partite delle giovanili per poter fiorire in tutta la sua bellezza. Dopo tutto «Per giocare in prima squadra, non conta quanti anni hai, conta talento». In realtà questa, Boskov, non l’ha mai detta, ma rimane il fatto che in un pomeriggio di marzo del 1993, con la Roma avanti 2-0 sul Brescia grazie ai gol di Mihajlovic e Caniggia, Vujadin, su imbeccata proprio di Miha, indica a un sedicenne Totti di scaldarsi a pochi minuti dalla fine. Er Pupone si gira verso bomber Muzzi. Invece tocca proprio a lui. La favola del Re di Roma inizia al Rigamonti e il primo gioiello della corona è incastonato da zio Vujadin.
Roberto MANCINI E Gianluca VIALLI
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«Grandi squadre fanno grandi giocatori. Grandi giocatori fanno spettacolo e migliore calcio»
Trentuno reti sui cinquantasette gol segnati dalla Sampdoria nel Campionato 1990-91. Questo lo score dei Gemelli del Gol. Forse per una volta sono i numeri a raccontare più delle parole. I due campioni hanno costituito negli anni di Genova una simbiosi tecnica così completa e assoluta che non ce la sentiamo di parlare dei due distintamente, Boskov non ce lo avrebbe permesso. Vialli e Mancini rappresentano il più grande successo tecnico del tecnico serbo; traguardo tutt’altro che scontato considerato che grandi allenatori della nazionale, come Vicini e Sacchi, non sono stati in grado di rendere il tandem doriano altrettanto proficuo con la maglia della nazionale.
Mancini amava dire «Io tiro, poi la palla sbatte addosso a Gianluca e lui segna», consapevole che, ovviamente, la realtà fosse ben diversa. Vialli era la sintesi finale della giocata creativa del numero dieci e la loro unione tecnica era rafforzata un forte legame di amicizia. Un giorno, a Bogliasco, Vialli “si permise” di chiamare il suo amico per cognome. Il fantasista di Jesi, risentito, non gli rivolse la parola per una settimana. Ora, trenta anni dopo, sono di nuovo insieme in nazionale. Mancini come CT, Vialli nello staff. Torneranno a farci sognare anche in queste nuove vesti e probabilmente Roberto si offenderà ancora se mai Gianluca dovesse tornare a chiamarlo per cognome.
di Andrea Tomassi
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